Ti ho fatto male? (sogni nell'armadio #1)



“Mi senti, Francesco?”

Quella voce acuta e fastidiosa risuonò nella stanza in maniera sorda e ovattata. Sulle prime pensai di essere impazzito e di essermela immaginata. Per quello che valeva avrebbe avuto perfettamente senso, visto il periodo. Quindi feci finta di niente.

“Pensi che ti servirà a lungo ignorarmi?”

Io rabbrividii, realizzando di essere da solo in quella camera, dopo essermi guardato intorno.

“Sei qui?” Esclamai timidamente, quasi a non volermi far sentire troppo da qualcuno;

 “Si, sono sempre stata qui, e so tutto di te, da sempre, anche se non ci vediamo da tempo, perché ti sei dimenticato che esisto.”

Moltissimi anni prima avevo vissuto stati di allucinazione, raramente in prima persona, e il più delle volte, quando capitava a me, non capivo se si trattasse di pazzia, sogni o curiose premonizioni.

Erano ricordi di bambino, di quelli che sfumano nel tempo come una vecchia foto mal fissata sulla carta. Alcuni li chiamano meccanismi di difesa. Io l’ho sempre chiamata infanzia rubata dal tempo e dalle persone che avevo intorno.

“Dove sei?” chiesi alla voce stridula ed inquietante.

“Te l’ho detto poco fa. Sono qui in questa stanza. Molto tempo fa, da bambino mi hai nascosto qui, tanto da scordarti la mia voce, oltre alla mia presenza. È stato allora che non ti ho più parlato, perché hai smesso di volermi ascoltare”


Nella mia testa quella voce cominciava a dirmi qualcosa. Era qualcosa di già sentito, ma era troppo lontano per capire bene chi o cosa fosse.


“Beh, evidentemente se avevi qualcosa da dirmi non era così importante, forse, non ti pare?” risposi con un sarcasmo guidato dalla disperazione e dall’incredulità.


“Sai, Francesco, io ti capisco se ad un certo punto non hai più avuto voglia di parlare con me, alcuni lo fanno perché crescono e non hanno più tempo da dedicarci. Altri, come te, si rifiutano semplicemente per la loro sofferenza” ribattè la voce, facendosi seria all’improvviso.


“Rifiutarmi…Cosa? Di ascoltare una voce nella mia testa? Tu che faresti al posto mio? Io, a questo punto penso di essere impazzito!”


Mio figlio mi chiamò dal piano di sotto, sentendomi parlare al nulla.

“Papà? Sei di sopra? Nonna mi ha detto di dirti che la cena è quasi pronta e di venire giù a mangiare”

Il tono allegro e spensierato del mio ragazzo mi rimise un sorriso ed un tono di circostanza per una frazione di secondo. Non credo gli avrebbe fatto piacere se mi avesse sentito nel panico.


“S-Si Federico, arrivo subito, v-vado in bagno un secondo e poi scendo, grazie”


Ripresi a parlare al mio interlocutore invisibile, ma abbassando la voce, per evitare che qualcun'altro mi sentisse, chiudendo la porta. Continuai con un tono strozzato, vagamente preoccupato e agitato: “Insomma, ma si può sapere tu chi cazzo sei e cosa cazzo vuoi da me?”


“Bella domanda, Francesco. ma non dovresti farla a me” mi rispose la voce, con un tono serioso e più profondo. Poi riprese con un tono allegro: “tuo figlio è bellissimo, lo sai? E ti adora!”


Per essere una lucubrazione nella mia mente, la stronza sapeva fin troppo bene dove colpirmi per indebolirmi.


“Cosa cazzo c’entra mio figlio?” sbottai.

“Mi ricorda te da bambino. È dolce, e molto protettivo nei tuoi confronti, come tu facevi con mamma quando papà la maltrattava, e poi ti chiudevi in camera a piangere da solo”


I ricordi affiorarono come un fiume in piena. Nei miei occhi di quarantaduenne scesero lacrime troppo amare. Ancora una volta ripensai al mio passato. A tutti quei pianti disteso nel letto da solo, senza nessuno che si chiedesse dove ero o come stessi.


“Ti ho fatto male?” riprese la voce che ormai avevo riconosciuto.

“Ancora una volta si” risposi singhiozzando.

“Mi spiace, scusami” disse con un tono rassicurante.

“Dove sei?” chiesi nel silenzio della stanza.

“Sono dentro all'armadio, dove mi hai abbandonato molto tempo fa”


Mi alzai dal letto dove nel frattempo mi ero seduto diventando una palla inerme di moccio e lacrime, e mi diressi verso quel vecchio mobile trasandato. Le impiallacciature del legno logoro e trasandato dal tempo mi dissuadevano dall'aprirlo, ma non avevo scelta.


Non ho davvero memoria di quanto rovistai dentro a quel mobile, sul fondo di quel ricordo di me a dieci anni, fra l'odore di naftalina ammuffita e ritrovando ere geologiche di quello che ero. Vestiti vecchi, paia di guanti, vecchi fumetti, chiamando ogni tanto la voce per orientarmi dove fosse. Sembrava che quell'armadio non dovesse finire mai da quanto era grande; una gola così profonda in cui, mano a mano che venivo ingoiato, la luce dietro di me spariva in maniera sempre più preoccupante.

Più chiamavo, più la voce era lontana. Fino al buio totale.

“Dai, Sei quasi arrivato!” sentii da distante.

“Dove siamo? Dove mi stai portando?” la paura di essermi perso in quel posto sconosciuto travalicava il mio raziocinio già fin troppo sommesso.


Non ci fu risposta. Solo una piccolissima luce nella direzione verso dove stavo gattonando nell’oscurità già da un pezzo.

“Guarda bene. Sei arrivato” mi disse.

la luce che vedevo era un buco della serratura.

“Non vuoi dare una sbirciatina?” continuò il mio interlocutore.

“Non lo so, dovrei? Mi farà ancora male?” chiesi terrorizzato.

Mi avvicinai per guardare, ma accostando l’occhio il riverbero della luce che veniva dall’altra parte faceva apparire tutto troppo sfocato.  A quel punto cercare una maniglia fu istintivo, ma non c’era. Ed allora provai a spingere contro a quella che presumevo essere una porta.

Bastò appoggiare poco la mano per capire che ad aprirsi fu proprio la porta dell’armadio della mia camera, con quel suo scricchiolio tipico. Mi guardai indietro fra il terrore e lo stupore, ed uscii.

Riconobbi il posto. Era la mia camera, ma non quella da cui era iniziato il mio curioso viaggio.

Il pavimento era coperto di costruzioni, fogli e matite per colorare.

Sui muri vecchi poster dei Rush, degli Who strappati sui bordi.  Ed al centro, appoggiato ad una parete, il letto. non mi servì molto a riconoscere il bambino che se ne stava seduto di spalle a singhiozzare in uquel pianto silenzioso che conoscevo fin troppo bene.

"OOOH! Era ora, ben arrivato!" 

In parte al bambino c’era lei. Che mi guardava con il suo vestito rosso e il suo bel sorriso ricamato in faccia. La mia scimmia di peluche era riemersa assieme a me dall’armadio, e come moltissimi anni prima mi stava parlando, restando inanimata ma emettendo  quella voce che ormai aveva fatto riaffiorare la mia infanzia.

“Lo so, Francesco ti chiederai perché sei qui. E questo ci porta alle domande che mi facevi prima, quando mi chiedevi chi fossi io, te lo ricordi?”

Io non sentivo la scimmia. Non avevo orecchie che per quel pianto senza suoni, e nella mia mente si focalizzò quel momento della mia vita passata.

Mamma era tornata dall’ospedale dopo l'ennesimo esaurimento, era imbottita di psicofarmaci nella stanza adiacente alla mia, ed io piangevo da solo, perché papà non era mai a casa. E quel pomeriggio lei era in camera sua a mugugnare dondolante sulla sua poltrona, nonostante i calmanti, con il suo plaid sulle spalle. Quello non era decisamente il posto per un bambino di otto anni.

“Perché mi hai riportato qui?” chiesi a bassissima voce al giocattolo, quasi a non voler disturbare il bambino.

“Sai Francesco, questo è il punto della tua vita in cui tu hai deciso di dimenticarti di me nascondendomi lì dentro” mi disse la scimmietta in tono serioso, poi continuò: “Io e te non abbiamo parlato più da quel giorno, perché tu mi hai chiuso in quell’armadio, e non raccontiamocela. Lo sai benissimo che questa voce non è mia. Per cui la domanda giusta che dovresti farti è chi sei tu, non chi sono io...”


Presi la scimmietta dal letto rabbiosamente in mano e la guardai negli occhi, inveendo contro di lei: “Vuoi sapere chi sono io? Eccomi lì! Sono quello che si è fatto carico del peso del mondo da sempre, cercando compromessi, cercando uno sguardo, una parola di conforto da dare o da ricevere, cercando di non cambiare per fare un favore agli altri senza fare del male a nessuno! E sai qual è la cosa ironica in tutto questo?”

“Certo che la so. E sono contento che tu mi abbia ritrovato per parlarmene. Quindi dimmela tu…”

Le mie lacrime ormai scendevano disperate da almeno un minuto, quando risposi.

“La più grossa fregatura è stato mettermi sempre a subire tutto senza scelta. Francesco non rispondere così a tuo fratello perchè poi dà di matto, Francesco non fare agitare mamma che sta male, Francesco dovevi fare di più! Ecco cosa c’è di ironico in tutto questo, e non perché io avessi paura degli altri. Avrei potuto schiacciare le convinzioni degli altri in qualsiasi momento, ma non ho voluto farlo perché ho visto troppa gente soffrire attorno a me, e non volevo succedesse mai più. Ed invece guardami ora, a quarantadue anni ho incasinato le cose peggio dei miei genitori!”

Ripensai a mio figlio. A quello che stavo facendo nella dimensione da dove venivo attraverso quell’armadio. Alla separazione da mia moglie. Ripensai a quanto dura fosse per tutti quelli che avevo intorno oltre a me.

“Ne sei veramente sicuro, Francesco?” rispose il pupazzo, continuando “Non pensi che abbia nessun valore il fatto che oggi io e te abbiamo ricominciato a riparlarci?”

Seguirono alcuni secondi di silenzio da parte mia, a tentare ancora di capire cosa mi stava succedendo.

“Penso di si, ma perché mi hai portato qui?”

la sua risposta a questo punto assunse un tono pacato e comprensivo: “Guarda quel bambino, quello sei tu! Non ti pare di aver sofferto abbastanza nella tua vita per le persone a cui hai tenuto? Ti prego, guarda quel bambino, ripensa a quanto ti è costato arrivare fino a qui, oggi.

Non sarò io ad ammonirti se pensi di aver sbagliato qualcosa, o tutto. Io ti sto parlando, ma sai tu cosa è giusto per te. Non smettere mai di credere in chi ti sta attorno, a quelli che c’erano, ci sono, ci saranno. Non li odiare se ti criticheranno, ti useranno, o ti odieranno prima loro. Ma dimostra a te stesso che puoi essere meglio di come sei ogni momento, e quando deciderai di cambiare e fallo per te, non per la loro sofferenza”

Sorrisi, riuscendo finalmente a dare una dimensione a tutto. Dando una dimensione a quella bizzarra dimensione.

Poi all’improvviso un’alta voce mi chiamò da dietro.
Non feci a tempo a girarmi che tutto era sparito.

“Papaaaaaaà! Ma stavi dormendo? La cena è pronta! La nonna ti chiama da almeno cinque minuti”

Il sorriso di mio figlio era davvero il più bel risveglio che potessi desiderare.

Mi alzai con una fame mostruosa. Andai verso di lui e lo abbracciai come se non ci fosse un domani, senza parlare, ed il suo sorriso fu ancora la risposta perfetta; con la coda dello occhio, poi notai il letto dove poco prima ero disteso. Lei era lì, a guardarci con il suo bel sorriso ricamato in faccia.






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